POCHI PROGETTI E GUADAGNI AL RIBASSO: I RAGAZZI ABBANDONANO L'ARCHITETTURA


Gli architetti italiani stanno vivendo una stagione tormentata. Sono tantissimi, oltre 150 mila, molti di più che in Germania (100 mila) e cinque volte i francesi e gli inglesi (30 mila). Da noi ogni mille abitanti ci sono 2,5 architetti. In venti anni il loro numero è quasi raddoppiato ma il trend è destinato a invertirsi perché negli ultimi sei anni l’iscrizione ai corsi universitari di architettura è crollata (-45%).
Il vero problema però non è la crisi delle vocazioni quanto i motivi che la causano e che possono essere sintetizzati con lo slogan dell’impoverimento dell’architetto medio, dove la retrocessione è sia materiale sia di contenuti professionali. A scattare questa fotografia (assai preoccupante) dello stato di una delle professioni più prestigiose è stato il Consiglio nazionale degli architetti in collaborazione con il Cresme. Centoventi pagine che vivisezionano la crisi e che, c’è da scommettere, animeranno la discussione interna. Perché una svolta si impone.
Cominciamo dal portafoglio. Negli anni 2006-12 gli studi e i singoli professionisti hanno perso quasi il 30% dei loro introiti annui, tanto che nel 2012 la stima del reddito medio è di poco più di 20 mila euro. Sono stati anni in cui la dilatazione dei tempi di pagamento, l’aumento delle insolvenze e la sempre maggiore concorrenza hanno inciso pesantemente.
E le prospettive per il 2013 non sono migliori. Il rilancio degli investimenti in infrastrutture si fa attendere e il 66% degli architetti intervistati si attende ulteriori cali della domanda di opere pubbliche. La riqualificazione degli edifici va un po’ meglio, soprattutto se legata al risparmio energetico. Pessimismo, invece, per quanto riguarda l’urbanistica e la riqualificazione urbana, in calo secco negli ultimi due anni e prevista in flessione anche nel 2013.
Il Piano città del governo Monti ha avuto il merito di riaprire il dibattito ma tempi, risorse e modalità di attuazione appaiono dubbi. Tutte queste contraddizioni si sono scaricate sulle nuove generazioni di architetti. Così, a dieci anni dal conseguimento del titolo di secondo livello, il reddito mensile medio di un giovane risulta di 1.300 euro, inferiore alle medie di geologi, biologi, psicologi e ovviamente ingegneri.
«A determinare le nostre difficoltà — commenta Leopoldo Freyrie, presidente del Consiglio degli architetti — hanno pesato due fattori combinati tra loro, la grande crisi e la frammentazione delle strutture. Il conto più salato lo pagano i giovani che vivono una condizione da nuovo proletariato».
Il 73% di loro inizia la carriera come partita Iva monocommittente o come dipendente con contratto a progetto e dopo la bellezza di 7 anni lavora ancora come collaboratore esterno di uno studio di terzi. Il 40% dei collaboratori o dipendenti di studio guadagna mille euro al mese.
Se a valle, dunque, la condizione dei giovani è particolarmente sacrificata, a monte il problema sta nel calo drammatico (-45%) del mercato potenziale degli architetti nelle costruzioni, ovvero la quota degli investimenti che fa riferimento ai soli servizi di progettazione.
Non c’è da stupirsi se di fronte a questa situazione il 40% degli architetti intervistati ha dichiarato di valutare seriamente la possibilità di lavorare all’estero. I mercati più promettenti sono quelli del Nord Europa e della Svizzera. Le differenti normative nazionali e la difficoltà di comparare qualifiche e competenze acquisite in differenti Paesi, tuttavia, rendono difficoltoso il libero movimento dei professionisti e non è un caso che il 95% del volume di affari degli architetti europei (non solo italiani, quindi) sia nel Paese di residenza.
Tra le profonde trasformazioni che investono la professione ce n’è una positiva e riguarda il genere. Dei 150 mila architetti italiani, 61 mila sono donne, una quota che è andata rapidamente aumentando negli ultimi anni e che è ancora destinata a crescere perché se il 35% del totale degli architetti iscritti agli albi provinciali ha meno di 40 anni, tra le donne questa percentuale raggiunge il 50%.
Ma di fronte a questa situazione che rischia di penalizzare l’architettura italiana per un lungo periodo di tempo che si può/deve fare? «Francamente non mi aspetto nessun aiuto dall’alto, dalle istituzioni e dalla politica, e quindi dobbiamo essere noi ad avviare la risalita — dice Freyrie —. Dobbiamo superare l’incapacità di mettere in relazione i professionisti con l’industria».
Nel frattempo, infatti, è cambiato il modo di costruire. Non c’è più un primo tempo dove si progetta e un secondo dove si esegue, il lavoro è parallelo. Si costruisce in modo integrato e contano moltissimo i brevetti. La seconda risposta alla retrocessione si chiama aggregazione tra gli studi. «Solo così possono scendere i costi e aumentare le opportunità di lavoro. E lo strumento delle società tra professionisti, approvato di recente, può venire utile».
Articolo di: Dario Di Vico - BLOG "Corriere della Sera" - La Nuvola del Lavoro

1 commenti:

Quân Đào ha detto...
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